La risurrezione di Cristo ha cambiato tutto, oggi più che mai basta ricordarsi !

Nel libro La gioia della misericordia che raccoglie gli insegnamenti orali di Padre Maria Eugenio, possiamo leggere:

“Come conservare tuttavia la fiducia quando l’amore fedele di Dio non si fa più sentire, quando nello spessore della notte non sembra più apparire nessun raggio di gioia? Quando le grida di sofferenza non ottengono risposta?

È l’ora della fede nella gioia promessa. Credere, anche se la salita è rude e ripida, anche quando l’avvenire sembra molto compromesso, anche quando la prova non sembra mai aver fine.

La fede e la speranza giocano lo stesso ruolo sul piano personale e a livello collettivo. La novità oggi, scrive Axel Kahn, “è il declino generale della speranza umana che il progresso, in fine ineluttabile, arriverà a dare agli uomini la padronanza di un destino finalmente liberato dagli eccessi della violenza e favorevole alla realizzazione personale di ciascuno”[1].

Senza dubbio non è la speranza umana, ma la speranza soprannaturale che bisogna rendere familiare. In un’analisi filosofica, Gabriel Marcel presenta la speranza umana come quella che include un tempo aperto all’innovazione, alla creazione. Che dire allora della speranza soprannaturale di cui Dio è il principio e il fine? Il Vangelo, scrive Benedetto XVI, è “una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova”[2].

Credere alla gioia, è sperare, in ragione delle promesse divine, che la traversata della prova o dell’oscurità è solo una tappa del progredire verso una gioia più profonda. Credere alla gioia della misericordia, sperarla, è attendere da Dio il cambiamento, la novità in rapporto all’orizzonte chiuso del presente.

È l’infinita bontà di Dio che prende il fardello della sofferenza e che supplisce alle deficienze dell’uomo.

E più i limiti umani si fanno notare, più può essere presupposto generoso il gesto di Dio. La miseria umana in tutte le sue forme permette dunque a Dio di donarsi di più, e diventa perciò principio di una gioia più grande su scala divina. E a livello umano. La gioia della misericordia esplode doppiamente.”

Che cos’è, la “povertà”? Povertà non significa sempre uno spogliamento estremo, ma piuttosto uno stato interiore. Il povero talvolta è colui che non ha più niente. Ancora di più, il povero è chi non si appoggia su alcuna qualità o capacità umana per ricevere i doni di Dio. Sa che tutto gli è concesso gratuitamente, a cominciare dalla sua esistenza. Egli sa che deve fare tutto quello che può, senza mai colmare il divario che lo separa da se stesso, dagli altri e da Dio. Essere povero, anche se non si possiede granché, è distaccarsi da tutto quello che si è e da tutto quello che si fa.

Bisogna tener conto delle circostanze e degli avvenimenti che gettano nello choc brutale della povertà, delle situazioni senza uscita. Prender coscienza dei propri limiti, scoprire la propria finitezza nel corso ordinario dei giorni, o nei fallimenti, nelle prove, nella fatalità apparente, è poter presentare a Dio una povertà che egli si prodiga di colmare.

È tutto il contrario del rinchiudersi in sé, nella disperazione o nella colpevolezza. Siamo sempre poveri in qualche modo. Nessuno è, né il principio, né il fine dei suoi atti. Occorre però del tempo per rendersene conto! Siamo i servitori di un disegno divino che conserva sempre la sua oscurità e la sua parte di mistero.

[1] Axel Kahn, Raisonnable et humain? Editions Nils, Paris, 2004, p. 165.

[2] Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe Salvi, n. 2.

La gioia della misericordia p. 88-90