Reliquaire PME - avec Notre Dame de Vie

Reliquiario del Beato, nella cappella di Nostra Signora della Vita

Dal “rigoglioso albero carmelitano della santità” dopo “Teresa di Gesù, Giovanni della croce, Teresa di Lisieux, Elisabetta della Trinità, solo per citare alcuni”, è germogliata anche la figura di Maria Eugenio di Bambino Gesù (1894-1967).

Lo ha sottolineato il cardinale Angelo Amato, durante la beatificazione del fondatore dell’Istituto Notre Dame de Vie, presieduta sabato 19 novembre 2016 ad Avignone, in rappresentanza di Papa Francesco.

All’omelia il prefetto della Congregazione delle cause dei santi ha affermato che se i santi carmelitani risaltano “come mastri riconosciuti della vita in Cristo, in continuità con questa tradizione anche il beato Maria Eugenio, chiamato “apostolo della preghiera” trasmette il messaggio della chiamata universale alla santità e alla intimità con Dio mediante la fede e la contemplazione”. Inoltre –ha aggiunto- “egli richiama un elemento di grande attualità oggi : la vita battesimale può essere vissuta nella sua totalità e integralità da tutti i fedeli, sacerdoti, consacrati e laici”. In proposito il celebrante ha individuato tre caratteristiche del religioso carmelitano morto cinquant’anni fa :

La preghiera come espressione di fede profonda

Il cardinale Amato ha evidenziato come padre Maria Eugenio vivesse “in un orizzonte trinitario. La Trinità era la sua casa e la sua famiglia” e “la fede nella Trinità era entusiastica e contagiosa e si manifestava soprattutto nella preghiera”. Egli infatti “dedicava con assiduità due ore al giorno alla preghiera, semplice, silenziosa, raccolta, fervorosa”. Di più, “era come abitato dalla preghiera. La sua giornata era scandita dalla preghiera. Anche passeggiando, recitava il rosario. Desiderava che tutti i battezzati vivessero di preghiera”. E cosi “la sua parola, nutrita di Vangelo, aveva una forza irresistibile di convinzione”, soprattutto quando parlava con semplicità del mondo soprannaturale”. E “mediante la preghiera trasmetteva la consapevolezza della reale presenza di Dio”.
La fondazione della sua opera “in una società impregnata di materialismo ateo e colpito dalla miseria spirituale”, è proprio frutto di questa fede che lo rendeva “audace nelle imprese, nonostante la povertà della persone e delle risorse”, ha constatato il cardinale Amato, definendo Notre Dame de Vie –come amava dire il beato – “la vetta del Carmelo che discende in pianura”.

L’abbandono alla Provvidenza come frutto della speranza

Dopo aver ricordato che “questa fede solida lo sosteneva nell’abbandono totale del Padre, ricco di misericordia”, il Prefetto della Congregazione delle cause dei santi ha fatto notare come le fondazioni di padre Maria Eugenio all’estero –in America, nelle Filippine, in Germania –fossero “un aspetto dell’espansione missionaria del suo abbandono in Dio”. E in tale contesto “la sua straordinaria speranza era dinamica, tutta tesa alla realizzazione della comunione con Dio, vocazione di ogni essere umano, compresi gli atei e gli appartenenti ad altre religioni”. Insomma “aveva una speranza fuori del comune” ma “non una speranza utopistica, bensì concreta, ricercando e utilizzando le risorse che la Provvidenza gli metteva a disposizione”.

La gioia come espressione della carità

E questa “speranza lo rendeva sereno e anche gioioso nelle difficoltà, nell’angoscia, nella sofferenza”. Anzi da qui scaturivano “il suo ottimismo e la sua incessante azione di grazie. Manifestava gioia –ha ricordato il celebrante- nel parlare di Dio. Ciò lo rendeva sorridente. Non era mai triste, ma affabile e pieno di umorismo”. Infine, vivendo nel Carmelo, ordine profondamente mariano, “il beato aveva un amore filiale e profondo per la Vergine”. E ciò “lo avvicinava agli umili, ai piccoli, ai poveri, verso i quali mostrava accoglienza, comprensione, delicatezza di spirito. Con gli ammalati era particolarmente servizievole, tenero, paterno, buono”.

Per alcuni, il carisma proprio di padre Marie Eugenio era l’umiltà. Un’umiltà autentica, manifestata non a parole, ma vissuta nelle umiliazioni”, al punto che “si scusava spesso per i suoi atti di impazienza. Ma tutto sopportava col sorriso sulle labbra. Pregava il Signore –ha concluso il cardinale Amato- di lasciargli i suoi difetti, che erano il suo carapace, e cioè il suo rude scudo contro la superbia”.

dall’Osservatore romano 21-22 novembre 2016